SPELLBOUND di Alfred Hitchcock - Usa 1946
Versione originale restaurata con sottotitoli italiani
“Tutto ciò che è incantevole produce una specie di perpetuo scintillio”, scrive Emanuele Trevi nell’auto-fiction romanzesca che tre anni fa gli guadagnò il Premio Strega, e questo è esattamente quel che accade a Ingrid Bergman in Spellbound, fin dalla scena in cui la dottoressa Petersen rientra affannata e siede al tavolo dove l’attendono per la cena i colleghi, sette nani non tutti benevoli, stretti intorno a una Biancaneve che ha appena avuto il suo bacio. Qualcosa le scintillerà sempre intorno, filtrando tra i capelli appena scarmigliati, accendendosi nelle guance che immaginiamo arrossate; questa natura incantevole, questo incantamento è la legge d’attrazione che dà al film il suo equilibrio. Fu accolto male Spellbound, e dal “surprisingly disappointing” di James Agee si arrivò al “disaster” di Pauline Kael; poi in questi ultimi decenni, nel clima di universale adorazione riservata a Hitchcock, i pochi che ne hanno parlato lo hanno fatto con più rispetto e clemenza. Tuttavia il film rimane una sinuosa danza di stereotipi, lo psichiatra ammattito, lo smemorato ingiustamente accusato, la dottoressa che si toglie gli occhiali e diventa “toute femme”, come scrissero Rohmer e Chabrol, scivolando fino al paterno Freud del New England.
Ma tra un passo e l’altro d’una psicanalisi illustrata come una favola, quali squarci formidabili sa aprirsi questa cinepresa: il povero Gregory Peck, che per antico trauma odia il bianco e le righe, s’inoltra nel candore d’un bagno piastrellato, e in un attimo comprendiamo “l’illimitato, criptico terrore che può emanare dagli oggetti” (ancora Agee); poi, il ritorno del rimosso, in due sole inquadrature silenziate, è il più conciso e agghiacciante che potremo mai ricordare. La resa dei conti, col suo finale fiotto di rosso, è scritta sul filo tra pathos e sudore freddo, e sia onore a Ben Hecht. E Salvador Dalí? Dalí venne chiamato a bordo da Selznick, e Selznick è uno dei motivi per cui gli storici hanno trattato il film con distacco, opinando che la mano del produttore si facesse sentire troppo (Hitchcock non ha mai suffragato l’opinione). La lunga scena del sogno rivelatore è un’arruffata stravaganza, ma la singola languida fuga delle porte che si aprono una dopo l’altra ancora ci turba (molto di più, su uno schermo molto più grande) per la sua simbolica, erotica eleganza.
Paola Cristalli
Versione originale restaurata con sottotitoli italiani
“Tutto ciò che è incantevole produce una specie di perpetuo scintillio”, scrive Emanuele Trevi nell’auto-fiction romanzesca che tre anni fa gli guadagnò il Premio Strega, e questo è esattamente quel che accade a Ingrid Bergman in Spellbound, fin dalla scena in cui la dottoressa Petersen rientra affannata e siede al tavolo dove l’attendono per la cena i colleghi, sette nani non tutti benevoli, stretti intorno a una Biancaneve che ha appena avuto il suo bacio. Qualcosa le scintillerà sempre intorno, filtrando tra i capelli appena scarmigliati, accendendosi nelle guance che immaginiamo arrossate; questa natura incantevole, questo incantamento è la legge d’attrazione che dà al film il suo equilibrio. Fu accolto male Spellbound, e dal “surprisingly disappointing” di James Agee si arrivò al “disaster” di Pauline Kael; poi in questi ultimi decenni, nel clima di universale adorazione riservata a Hitchcock, i pochi che ne hanno parlato lo hanno fatto con più rispetto e clemenza. Tuttavia il film rimane una sinuosa danza di stereotipi, lo psichiatra ammattito, lo smemorato ingiustamente accusato, la dottoressa che si toglie gli occhiali e diventa “toute femme”, come scrissero Rohmer e Chabrol, scivolando fino al paterno Freud del New England.
Ma tra un passo e l’altro d’una psicanalisi illustrata come una favola, quali squarci formidabili sa aprirsi questa cinepresa: il povero Gregory Peck, che per antico trauma odia il bianco e le righe, s’inoltra nel candore d’un bagno piastrellato, e in un attimo comprendiamo “l’illimitato, criptico terrore che può emanare dagli oggetti” (ancora Agee); poi, il ritorno del rimosso, in due sole inquadrature silenziate, è il più conciso e agghiacciante che potremo mai ricordare. La resa dei conti, col suo finale fiotto di rosso, è scritta sul filo tra pathos e sudore freddo, e sia onore a Ben Hecht. E Salvador Dalí? Dalí venne chiamato a bordo da Selznick, e Selznick è uno dei motivi per cui gli storici hanno trattato il film con distacco, opinando che la mano del produttore si facesse sentire troppo (Hitchcock non ha mai suffragato l’opinione). La lunga scena del sogno rivelatore è un’arruffata stravaganza, ma la singola languida fuga delle porte che si aprono una dopo l’altra ancora ci turba (molto di più, su uno schermo molto più grande) per la sua simbolica, erotica eleganza.
Paola Cristalli
CAROLA DELGADO
Concerto di musica TROVA latino americana
Le Parole e la voce della celebre cantante Nicaraguense.
Che Carola abbia cantato qui, in Italia, a Lodi, nel cinema in cui lavoro, è una cosa che, anche a un anno di distanza, non credo molto. Con quella luce ... buia, con il nordico Per alla chitarra, le preoccupazioni per il sound check, la voce, il ventaccio di quei giorni, l'attesa del pubblico. Ma poi Carola ha cantato davvero, mi è apparsa molto molto capace, ancor più capace di sempre; professionista in senso buono, capace di adeguarsi alle situazioni più diverse: un palco buio, il mal di gola, un cinemone in Italia non molto pieno. Presentava i pezzi, utilizzava quello che aveva visto/sentito nei due giorni precedenti qui a Lodi e in Italia, e ha raccontato altre storie, belle melodie, la musica TROVA latina, semplice, allegra e impegnata tra la gente. Con emergia. PERCHE' SIAMO ENERGIA!!
Mucisimas gracias Carola, Hasta pronto!
Le Parole e la voce della celebre cantante Nicaraguense.
Che Carola abbia cantato qui, in Italia, a Lodi, nel cinema in cui lavoro, è una cosa che, anche a un anno di distanza, non credo molto. Con quella luce ... buia, con il nordico Per alla chitarra, le preoccupazioni per il sound check, la voce, il ventaccio di quei giorni, l'attesa del pubblico. Ma poi Carola ha cantato davvero, mi è apparsa molto molto capace, ancor più capace di sempre; professionista in senso buono, capace di adeguarsi alle situazioni più diverse: un palco buio, il mal di gola, un cinemone in Italia non molto pieno. Presentava i pezzi, utilizzava quello che aveva visto/sentito nei due giorni precedenti qui a Lodi e in Italia, e ha raccontato altre storie, belle melodie, la musica TROVA latina, semplice, allegra e impegnata tra la gente. Con emergia. PERCHE' SIAMO ENERGIA!!
Mucisimas gracias Carola, Hasta pronto!
Al CINEMA CON SILVIO SOLDINI
Il regista Milanese, accompagnato dalla montatrice Carlotta Cristiani ci racconta
il suo ultimo film "Il Comandante e la cicogna".
Ha visto la bellissima piazza di Lodi; mangiato presso l'Enorafo di Ivan e Martino, ha brindato con il numeroso pubblico giunto all'incontro e ha presentato il film con Lucio D'auria del Cittadino; con le idee che sostenevano il progetto, le storie intrecciate di persone semplici alle prese con i problemi quotidiani nell'Italia di oggi, e con svolazzi surreali; oltre ai piccoli dispiaceri di un successo inferiore alle attese. Dal pubblico del Fanfulla è tornato all'autore un piccolo documento di restituzione.
il suo ultimo film "Il Comandante e la cicogna".
Ha visto la bellissima piazza di Lodi; mangiato presso l'Enorafo di Ivan e Martino, ha brindato con il numeroso pubblico giunto all'incontro e ha presentato il film con Lucio D'auria del Cittadino; con le idee che sostenevano il progetto, le storie intrecciate di persone semplici alle prese con i problemi quotidiani nell'Italia di oggi, e con svolazzi surreali; oltre ai piccoli dispiaceri di un successo inferiore alle attese. Dal pubblico del Fanfulla è tornato all'autore un piccolo documento di restituzione.